IL FATTO:
Nel novembre dell’anno 2012 Tizio, affermato professionista, veniva tratto a giudizio con la pesante accusa di pornografia virtuale ai sensi dell’art. 600-quater 1 c.p.
L’imputazione veniva formulata a seguito di una perquisizione disposta dal P.M. presso lo studio professionale in cui Tizio lavorava insieme ai suoi colleghi, sulla scorta del fatto che la Procura stava indagando sul suo conto, in quanto già sospettato di aver commesso presunti fatti di truffa aggravata. Nel corso della perquisizione all’interno della stanza di Tizio, venivano rinvenuti diversi dispositivi informatici (fissi e mobili) dallo stesso detenuti e, pertanto, certamente riconducibili a lui. All’interno di tali dispositivi, oltre a documenti inerenti la professione e foto personali, venivano rinvenuti anche fotografie e video a chiaro sfondo pedopornografico. Tale materiale era stato realizzato utilizzando minori degli anni 18, in particolare bambine, ed acquisito scaricando le immagini e i filmati da internet poi salvati e conservati in apposite cartelle. Si tenga presente che a parere dell’accusa, Tizio aveva scaricato detto materiale da un preciso canale video chat. Le immagini e i video ritraevano queste bambine nude nell’atto di mostrare il seno e i genitali, nonché di masturbarsi alla presenza di uomini adulti. A seguito della perquisizione Tizio veniva posto in stato arresta.
LE INDAGINE DIFENSIVE ESPLETATE
1) Assunzione di informazione da persone informate sui fatti:si decideva di conferire con le persone vicine all’imputato, soprattutto coloro che lavoravano con lui in studio, al fine di comprendere meglio le sue abitudini anche nell’ambito lavorativo. In particolare venivano sentiti tutti i suoi colleghi e collaboratori, nonché la sua segretaria storica, al suo fianco da oltre 20 anni. L’assunzione delle informazioni da parte di tali soggetti consentiva alla difesa di raccogliere una serie di elementi molto rilevanti. In particolare dai colloqui espletati, emergeva che:
- A differenza di quanto ipotizzato nel capo d’imputazione, i supporti mobili in sequestro non erano affatto nell’esclusiva disponibilità dell’imputato. Questi erano, al contrario, utilizzati da tutti i soggetti che lavoravano nello studio, che avevano addirittura l’abitudine di portarli a casa con sé. Molto spesso capitava che taluni supporti mobili venissero portati dall’esterno dai clienti che consegnavano allo studio copiosa documentazione e preferivano salvarla su chiavette piuttosto che consegnarla in cartaceo.
- Per quanto riguarda i supporti informatici fissi, tra cui i computer, emergeva che gli stessi non erano coperti da alcun blocco o password e che, pertanto, qualunque collega o collaboratore di studio poteva accedervi;
- Ogni soggetto collaboratore di studio succedutosi nel tempo ha sempre avuto libero accesso non solo ai supporti informatici ma anche ad ogni spazio dello studio professionale senza limitazione alcuna;
- L’imputato aveva l’abitudine di salvare le proprie cose personali su tutti i supporti, fissi e mobili, in quanto ossessionato dalla paura di perderli;
- Molte volte era capitato che, in accordo con l’imputato, i vari collaboratori dello studio avessero ricevuto i loro clienti all’interno del suo ufficio.
2) Nomina di un consulente tecnico informatico: veniva nominato sin da subito un esperto in informatica che potesse esaminare i contenuti dei supporti sequestrati nonché le modalità di duplicazione e conservazione degli stessi. Ebbene, anche dall’analisi effettuata dal consulente della difesa emergevano una serie di anomalie rilevanti:
- irregolarità commesse in fase di duplicazione dei contenuti sequestrati, consistite sia nel mancato rispetto delle regole poste a fondamento della corretta conservazione dei reperti, sia nell’inosservanza delle norme stabilite in tema di indagini informatiche.In particolare, il sequestro effettuato era privo di repertamento fotografico della scena criminise dei reperti sequestrati, in violazione delle best practicesrelative alle indagini informatiche forensi e a quanto prescritto dalla legge 48/2008. Tale mancanza non permetteva dunque di identificare oggettivamente la posizione dei files all’atto del sequestro;
- dagli atti contenuti nel fascicolo del P.M. non risultava istituita alcuna catena di custodia dei reperti sequestrati quando invece la corretta acquisizione e conservazione delle prove informatiche ha come elemento cardine la catena di custodia a garanzia della genuinità della prova;
- il materiale sequestrato veniva duplicato senza indicare le modalità della copia, cioè senza indicare se si trattava di copia forense dei dischi o di copia semplice dei files. Nessun riferimento veniva fatto poi in relazione agli strumenti utilizzati per la duplicazione né alle procedure di verifica di originalità della stessa.
- Dagli atti del fascicolo processuale non risultava alcun elemento legato alla navigazione sul canale video chat ipotizzato nell’imputazione né su altri siti a carattere pedopornografico e, se l’imputato avesse effettuato l’accesso al predetto sito internet, ve ne sarebbe stata traccia dall’analisi della cronologia, cosa che al contrario, non risultava;
- Non è stata condotta alcuna indagine temporale sui filesanalizzati, utile invece a localizzarli nel tempo e a comprendere se si trattava di una condotta abituale o sporadica
Tutti gli elementi raccolti venivano raccolti nel fascicolo del difensore ex art. 391 octiesc.p.p. e presentati al Pubblico Ministero e al Giudice dell’Udienza Preliminare unitamente ad istanza di celebrazione del processo nelle forme del rito abbreviato.
LA SENTENZA
L’imputato veniva assolto ai sensi dell’art. 530 comma 2 c.p.p.
Ciò in quanto, grazie anche alle investigazioni difensive espletate, non è stato possibile affermare con certezza che i dispositivi informatici fissi e mobili fossero effettivamente di proprietà e nell’esclusiva disponibilità dell’imputato, avendo la difesa fornito la prova del contrario. Inoltre, è stata fornita la prova che chiunque potesse liberamente utilizzarli e, pertanto, non vi è certezza che quei contenuti provenissero realmente dall’imputato o da terzi. Inoltre, l’inosservanza delle regole poste a fondamento delle indagini informatiche nonché della corretta conservazione dei reperti hanno inevitabilmente inciso sull’attendibilità del risultato scientifico. Dal momento che tali regole sono state in larga misura disattese è palese che non può aversi certezza del contenuto inserito nei supporti sequestrati né della genuinità della prova. Ciò in quanto solo attraverso una corretta catena di custodia dei reperti sarebbe stato possibile ricostruire, dal momento del sequestro, tutti gli eventi che hanno interessato le fonti di prova e le fasi in cui si sarebbero potute verificare contaminazioni. Pertanto, la sussistenza di dubbi sull’attendibilità del dato scientifico, sulla provenienza dei contenuti e sulla proprietà e disponibilità dei supporti informatici in capo all’imputato, hanno comportato, quale logica conseguenza, la formazione di un ragionevole dubbio circa la responsabilità dello stesso per il fatto-reato contestatogli che ne ha determinato, quindi, l’assoluzione.
Avv. Carlotta Cerquetti